Quando verrà l’ora di render giustizia a Mussolini
1/3/2020di Francesco Lamendola
Quando si decideranno gli
italiani, a cominciare dagli
storici, a rendere giustizia a
Mussolini? Certo, per farlo
dovrebbero riconciliarsi con il
loro passato e decidersi a
sbarazzarsi di alcuni cliché e
luoghi comuni sui quali è stata
costruita la mitologia democratica
e repubblicana del dopoguerra,
divenuta ormai Vangelo. Sappiamo
bene quanto ciò sia difficile: per
settant’anni quella mitologia è
stata la base delle carriere,
della politica, della cultura,
persino della filosofia e
dell’arte, insomma di tutto il
baraccone del politicamente
corretto. E per difendere quella
base sono state rimosse e negate,
fino a non molti anni fa, le
foibe; sono stati occultati i nomi
scomodi come quello di Porzus; si
è fatto finta che il “Triangolo
della morte” emiliano fosse una
mera leggenda dei neofascisti; e
si sono ingigantiti oltre ogni
limite della credibilità le colpe
e gli errori del fascismo stesso,
e specialmente di Mussolini.
Perciò, rendere giustizia a
Mussolini è divenuto pressoché
impossibile: le menzogne
ideologiche, dette e amplificate
per anni, per decenni, e ripetute
da tutti, specialmente dalla
scuola e dai professori di liceo,
sono diventate un qualcosa di
sacro e intoccabile: porle in
discussione, anche solo in piccola
parte, ha acquistato il sapore di
una blasfemia, di un sacrilegio.
Inoltre, questa deformazione della
verità storica si inscrive in una
più ampia deformazione, che non
riguarda solo l’Italia e il misero
modo in cui le nuove classi
dirigenti, antifasciste e
democratiche, sono andate al
potere nel 1945, cioè sulle ceneri
di una guerra civile e con la
spinta determinante del nemico
invasore e occupante, ma riguarda
un po’ il mondo intero: la
leggenda secondo la quale la
Seconda guerra mondiale è stata
uno scontro fra il Bene e il Male,
senza ombre né zone grigie, e che
alla fine, fortunatamente, hanno
vinto i Buoni contro i Cattivi.
Strana coincidenza: quei Buoni,
che hanno vinto, hanno avuto anche
l’ultima parola sul teatro della
storia: hanno voluto i loro bravi
processi punitivi, quello di
Norimberga contro i tedeschi,
quello di Tokyo contro i
giapponesi. Agli italiani il
trattamento è stato risparmiato in
virtù del voltafaccia del re e di
Badoglio dell’8 settembre 1943, e
onestamente ancora oggi, non si sa
se rallegrarsi di aver scampato la
sorte dei tedeschi e dei
giapponesi, gli altri due soci del
Tripartito, o deprecare di non
averla condivisa: perché solo in
quest’ultimo caso gli italiani,
forse, avrebbero avuto materia per
riflettere sulla “verità” di una
storia scritta dai vincitori, e
sulla bontà di una democrazia
realizzata grazie alle baionette
degli eserciti vincitori, che
erano, guarda caso, gli eserciti
nemici. Certo, i Buoni si sono
macchiati di dettagli come le
Fosse di Katyn (i sovietici) e le
bombe atomiche sganciate su
Hiroshima e Nagasaki (gli
americani), mentre gli inglesi
portano la responsabilità della
distruzione voluta e pianificata
di Berlino, Amburgo e Dresda
mediante attacchi aerei di tipo
puramente terroristico,
esplicitamente diretti a colpire
la popolazione inerme. Però
sull’altro piatto della bilancia,
quello dei Cattivi, c’è il Crimine
Senza Nome, il solo crimine che
niente e nessuno potrà mai, non
diciamo perdonare, ma anche solo
esaminare obiettivamente in sede
storica: la Soluzione Finale. Che
poi questo crimine, che senza
dubbio ci fu, sia stato
notevolmente gonfiato a guerra
finita, per ragioni
propagandistiche che avevano a che
fare col sionismo e con la
creazione dello Stato d’Israele;
che, pur di avvalorarne i
particolari più macabri, ci si sia
affrettati a ricostruire le camere
a gas, mai trovate, presentandole
ancor oggi come se fossero quelle
originarie; che si sia ricorsi a
una forzatura e a un travisamento
linguistico già nella scelta del
termine, facendo passare
l’espressione Soluzione Finale per
una premeditata volontà di
genocidio, mentre essa indicava,
in origine, una generica
“soluzione”, definitiva, sì, ma
non necessariamente omicida, della
questione ebraica, mettendo in
ombra il fatto che solo dopo la
battaglia di Mosca, cioè dopo le
prime avvisaglie che il Terzo
Reich avrebbe perso la guerra,
Hitler decise di dare a quella
espressione il significato più
sinistro, mentre prima aveva
pensato ad altre soluzioni, come
un trasferimento in massa nel
Madagascar (riprendendo un
progetto dei governanti polacchi
di prima della guerra, che si
erano spinti fino a sondare la
cessione dell’isola da parte della
Francia): tutto questo è stato
deliberatamente sottaciuto.
Ma torniamo a Mussolini. Senza
dubbio fu la sua alleanza con
Hitler a decidere, una volta per
tutte, il giudizio postumo che la
cultura italiana avrebbe dato di
lui: posto accanto al truce
dittatore tedesco, che di lui
aveva stima e perfino riverenza,
era quasi inevitabile che anche la
figura del Duce assumesse i cupi
connotati di un dittatore spietato
e sanguinario. Cosa che Mussolini,
invece, non fu. Non siamo qui a
nobilitare gli aspetti violenti e
illiberali del suo governo;
cerchiamo solo di essere giusti
verso la sua memoria, non per
nostalgia del fascismo, ma per
amore della imparzialità storica,
che da settant’anni ha
pietrificato il giudizio su di lui
entro la camicia di forza di
un’immagine banalmente
stereotipata. La verità è che
Mussolini cercò di dare all’Italia
un governo che desse voce e
rappresentanza all’Italia di
Vittorio Veneto, cioè a quello
spirito di fierezza nazionale che
si era cementato sugli argini del
Piave e sulle pendici del Grappa,
mobilitando le energie migliori
del popolo italiano in un
grandioso sforzo collettivo; e che
avviasse a soluzione alcune
questioni sociali che i socialisti
sbandieravano da sempre, ma che
non avevano mai mostrato di sapere
o di voler realmente affrontare, a
cominciare dalla previdenza
sociale, il diritto al lavoro, una
certa equità nei rapporto fra
lavoratori e proprietari, la
difesa della moneta e del
risparmio, la preminenza
dell’interesse nazionale rispetto
alla grande finanza
internazionale: un problema,
quest’ultimo, che già negli anni
’20 e ’30 del Novecento si stava
profilando in tutta la sua gravità
e che è lo stesso con il quale il
popolo italiano, insieme agli atri
popoli, deve fare i conti oggi. Vi
è anzi motivo di pensare che fu
proprio il grande capitale
finanziario internazionale a
decide che i regimi del Tripartito
andavano eliminati, non per
condurre una crociata democratica
contro le dittature, ma per la
ragione assai più concreta che
essi volevano sottrarre il collo
al cappio che stava cominciando a
strangolare l’economia mondiale,
partendo dalla City londinese e da
Wall Street; e che la sorte
dell’Italia fu decisa non quando
essa dichiarò guerra alle
democrazie, nel giugno 1940, ma
ben quattro anni prima,
nell’ottobre 1936, allorché
Mussolini scelse l’alleanza con la
Germania, peraltro solo dopo che
Francia e Gran Bretagna ebbero
fatto di tutto per spingerlo in
quella direzione, vanificando i
suoi propositi di restare nel
Fronte di Stresa (cfr. il nostro
articolo: Come gli Alleati, per
stupidità e cinismo, ‘regalarono’
l’Italia a Hitler, pubblicato sul
sito di Arianna Editrice il
13/05/2012 e ripubblicato sul sito
dell’Accademia Nuova Italia il
23/12/2017).
Ecco, allora, che la condanna
morale senza appello di Mussolini,
emessa dopo Piazzale Loreto e
mantenuta per tutti questi
decenni, in luogo d’una serena
valutazione storica, comincia ad
acquistare una più chiara
motivazione. Se la Seconda guerra
mondiale è stata, in buona
sostanza, uno scontro fra il
sangue e l’oro, come diceva, forse
non senza ragione, la propaganda
fascista, allora è logico che quei
poteri finanziari che l’hanno
vinta, e che hanno imposto il
giogo al mondo intero, avesse
bisogno di ridurre il significato
storico del fascismo, e la figura
stessa di Mussolini, entro la
cornice, rimpicciolita e
immeschinita, di una semplice
dittatura barbara e irragionevole
(la famosa invasione degli Hyksos
del “grande filosofo” Benedetto
Croce!) e di un dittatore
ignorante truculento, avido di
potere e innamorato solo di se
stesso. Che questa immagine
contrasti, poi, con tutta una
serie di dati di fatto; che
Mussolini abbia sempre preteso che
lo Stato venisse prima del Partito
fascista, e desse istruzioni in
tal senso sia ai consoli
all’esterno, sia ai funzionari
statali in Patria; che questo non
sia il modo di agire di un
dittatore classico, pazienza: al
diavolo i dati di fatto; in nome
della morale, si può ben giudicare
e condannare Mussolini una volta
per sempre. Resta però da vedere
se, proprio sul terreno morale,
egli fu quel criminale che la
vulgata democratica e antifascista
pretende. In verità, non risulta
che abbia mai ordinato
l’assassinio di nessuno; risulta,
anzi, che abbia concesso la
grazia, o la libertà di
espatriare, a moltissimi
antifascisti che erano stati
arrestati, condannati e
imprigionati o inviati al confino.
L’unico cadavere che la vulgata
antifascista è riuscita ad
addossargli è in pratica quello di
Matteotti; tuttavia non è stato
affatto dimostrato che egli abbia
voluto, né ordinato, quel delitto.
Quel che è certo è che esso non
solo non gli fece comodo, ma
rischiò di vanificare tutta
l’opera da lui condotta sino a
quel momento, cioè sino al giugno
1924. E perfino quegli storici i
quali, bontà loro, ammettono che
Mussolini non volle l’assassinio
di Matteotti, subito precisano che
non lo volle per la meschina
ragione che ciò lo avrebbe
obbligato a gettare la maschera
del leader parlamentare e ad
assumere il suo vero volto, quello
del bieco aspirante dittatore. Ma
il punto è proprio questo:
Mussolini, nel giugno del 1924, un
anno e mezzo dopo la marcia su
Roma, non era un dittatore, per la
semplice ragione che non aveva
voluto esserlo, anche se lo
avrebbe potuto. Era impegnato in
tutt’altro sforzo: quello di
coinvolgere nelle responsabilità
di governo le altre forze
politiche e sociali, in
particolare la Confederazione
Generale del Lavoro. Non era un
traditore del socialismo, ma il
vero erede del socialismo: lui le
riforme sociali le voleva fare per
davvero, mentre i suoi ex compagni
di partito le sapevano fare solo a
chiacchiere. E per farle aveva
bisogno della concordia nazionale.
Già era riuscito a coinvolgere nel
suo governo, direttamente o
indirettamente, i nazionalisti, i
liberali, i cattolici; gli
mancavano i socialisti. E quello
era il suo obiettivo: non la
dittatura, ma un governo di unità
nazionale. Se avesse voluto
imporre la dittatura, poteva farlo
dopo le elezioni del 6 aprile
1924, vinte dai fascisti alla
grande. Non lo fece, anzi si
adoperò per attrarre nell’area del
governo le maggiori forze
possibili, da destra e da
sinistra. Francesco Giunta
dichiarò poi che Mussolini
intendeva portare alcuni esponenti
socialisti al governo nel giugno
del 1924, precisamente Casalini,
D’Aragona e Zaniboni. Ed è assai
probabile che per questo Matteotti
pronunciò il suo famoso discorso
del 30 maggio: discorso coraggioso
e che gli costò la vita, ma
diretto non contro una dittatura
che ancora non c’era, ma a
trattenere i suoi compagni di
partito, tentati di accettare le
avances di Mussolini, cioè per
rendere impossibile la nascita di
un blocco di governo nazionale. E
Umberto II ha confermato questa
intenzione del Duce, dicendo di
averla saputa da suo padre,
Vittorio Emanuele III.
Un esempio dell’interpretazione
“classica” del delitto Matteotti
si trova ne L’Italia in camicia
nera (1919-3 gennaio 1925) di
Indro Montanelli (Milano, Rizzoli,
1976, pp. 241; 250-252):
Muto e immobile, egli [Mussolini]
aveva seguito il discorso di
Matteotti senza mai interromperlo,
e anzi dando segno di fastidio per
il chiasso che facevamo i suoi. Ma
il volto pallido e tirato,
denunciava il suo furore. Quando
l’avversario ebbe finito, si alzò
di scatto, attraversò l’aula a
passi concitati, e rientrò a
palazzo Chigi. Nell’anticamera del
suo ufficio s’imbatté in
Marinelli, e lo investì: “Che fa
la Ceka?… Che fa Dumini?… Se non
foste dei vigliacchi, nessuno
avrebbe mai osato pronunciare un
simile discorso!”. Questi scoppi
di collera erano in lui
frequentissimi, ma si esaurivano
in se stessi, come riconobbe
Cesare Rossi nella sua
testimonianza di accusa contro di
lui. E tutto lascia credere che
anche quella volta fu così.” […]
Ormai quasi tutti gli storici
consentono su una genesi del
delitto molto più semplice, almeno
come meccanica di svolgimento
[rispetto alle tesi
“complottiste”]: quella fornita da
Cesare Rossi nel suo “Memoriale”.
In Mussolini, disse Rossi, un
fondo di criminalità c’era: lo
riconosceva anche suo fratello
Arnaldo. Ed era stato questo fondo
ad ispirargli, dopo la
requisitoria di Matteotti alla
Camera, la famosa e fatale
invocazione alla Ceka. Quella
frase basta ad attribuire a
Mussolini la responsabilità morale
del delitto. Ma non si era
trattato di un esplicito mandato.
Mussolini era un politico troppo
accorto per non capire le
conseguenze di un simile
assassinio, e che venisse colto di
contropiede lo dimostra lo stesso
smarrimento con cui vi reagì. A
tradurre il suo scoppio di furore
in un ordine di castigo fu
Marinelli, e il gesto d’altronde
somiglia al personaggio: un
Himmler in sedicesimo, ottuso
burocrate della violenza e
carrierista ambissi assolutamente
privo di qualità sia politiche sia
umane. La Ceka era sua., la
considerava una specie di milizia
personale, e solo da lui
dipendeva. La sera del Gran
Consiglio egli aveva detto a Rossi
e a Finzi che l’ordine di metterla
in moto gli era venuto da
Mussolini. Ma Rossi non ci aveva
creduto, e i fatti gli hanno dato
ragione. Vent’anni dopo,
condannato a morte dal Tribunale
di Verona insieme agli altri
“traditori” del 25 luglio,
Marinelli confidò a Pareschi e a
Cianetti, suoi compagni di
prigione, che l’ordine lo aveva
dato lui, convinto di esaudire i
desideri del Duce. Resta solo da
sapere se l’ordine fu di uccidere
Matteotti, o di “dargli solo una
lezione” nello stile squadrista.
Naturalmente gli esecutori
sostennero sempre che uccidere non
volevamo, e che la vittima gli
morì in mano…
A questo punto, chiediamo: se
Mussolini, di cui si discute se
ordinò un assassinio politico,
aveva un fondo criminale, che dire
di Churchill, che ordinò a freddo
di bruciar vivi colle bombe al
fosforo gli abitanti delle
maggiori città tedesche, o di
Truman, che ordinò d’incenerire i
cittadini di Hiroshima?
E se non fu un criminale, sarebbe
ora di vederlo come statista per
quel che tentò di fare: cioè
l’Italia.