L’eccidio dei fratelli Govoni, uccisi a guerra finita dai partigiani “rossi”

30/6/2020

di Antonio Pannullo

Quella dei sette fratelli Govoni, di Pieve di Cento, di cui ricorre il 75° anniversario del massacro, è certamente una delle pagine più atroci della guerra civile italiana tra fascisti e partigiani. La loro storia non si insegna a scuola, per loro non c’è un museo, le scolaresche non vengono intruppate per vedere dove vissero e dove morirono. Su migliaia di libri sulla guerra civile, neanche dieci parlano di loro. Eppure la loro tragedia e quella della loro famiglia è indicativa per rappresentare l’atmosfera di selvaggia violenza, di terrore, di intimidazione e di omertà che in quegli anni regnava in Emilia Romagna e altrove. Accusati di essere fascisti, in realtà solo due di loro avevano risposto alla chiamata obbligatoria della Repubblica Sociale Italiana, furono sottoposti a torture indicibili e linciati dalla brigata partigiana Paolo dopo torture e sevizie durate ore. La più giovane di loro, Ida, che aveva solo vent’anni e non si occupava di politica, fu sequestrata mentre stava allattando la figlia di due mesi e brutalmente assassinata. Dei sette fratelli Govoni solo uno risultò essere morto per un colpo di arma da fuoco, mentre gli altri furono massacrati a botte, bastonate, calci e infine steangolati col filo del telefono. I fratelli Govoni, tutti contadini da generazioni, erano in tutto otto, ma una, Maria, si era trasferita dopo il matrimonio e i partigiani non riuscirono a rintracciarla. La storia è resa ancora più penosa dal fatto che dopo il massacri i parigiani buttarono i corpi in un fossato anticarro e si rifiutarono di dire ai genitori dove fossero le spoglie. Addirittura la madre Caterina fu derisa e poi picchiata a sangue da due donne dopo che aveva implorato un partigiano del paese di dirgli dove fossero sepoliti i suoi sette figli. Il partigiano avrebbe risposto: «Procurato un cane da tartufi e vai a cercarli». Tutti nel paese sapevano, perché il massacro era stato perpetrato da decine di persone, ma nessuno parlava, perché i comunisti tenevano il circondario nel terrore di nuove vendette e omicidi. Solo qualche anno dopo chi sapeva parlò: era il fratello di una delle vittime della furia partigiana, che raccontò tutto ai carabinieri. Nel 1949 i componenti la brigata garibaldina che si era macchiata di quella strage furono denunciati, ma nel frattempo gli assassini erano stati messi al sicuro in Cecoslovacchia grazie all’aiuto logistico del Partito Comunista Italiano. Questo come è noto avvenne per molti altri responsabili di omicidi nei confronti di civili innocenti, come ad esempio nel caso degli assassini di un settantenne inerme, tale Giovanni Gentile.