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26/10/2020

“Italia ‘90”: l’eclissi dello sport più bello del mondo

Diciamolo subito, chi fa ricerca storica divora libri con passione, a livello industriale. E, seppur per passione, la fornace brucia libri finalizzati ad un obiettivo: la ricerca. Per questo, poco spazio c’è per la lettura d’amore, ossia il leggere per leggere, per provare emozioni. Magari davanti ad un camino acceso, senza più quella matita in mano, pronta a sottolineare questo o quel passaggio. Un lusso che noi ricercatori, probabilmente, non ci possiamo permettere. Eppure, ogni tanto sogniamo di perderci in un libro. Per questo sono stato tentato di prendere un volume edito dall’amico Alessandro Amorese, a capo della Eclettica Edizioni, che mi ricordava un tempo in cui si sognava con molta facilità.

Si tratta del libro di Matteo Fontana, Un’Estate in Italia, che racconta il mondiale di calcio del 1990, perso dalla nostra nazionale, un mondiale legato alla mia giovinezza, perché io c’ero… e c’ero in prima fila quella notte dell’8 Luglio 1990, in mezzo ai tifosi germanici ad esultare per quella vittoria. Mi ci aveva portato mio papà, grande ultras del Milan in giacca e cravatta, come premio per il rendimento scolastico e come “consolazione”. Infatti, mio fratello, anche lui milanista, era reduce dalla gloriosa trasferta di Barcellona del 24 Maggio 1989, quando il Milan stellare di Arrigo Sacchi aveva vinto la Coppa dei Campioni. Un’esperienza unica… e per un tifoso della Roma quale ero io… impossibile. Mio padre, “per carità di patria”, volle essere magnanimo e generoso e far vivere anche a me un’emozione irripetibile. Fu così che venni catapultato nella bolgia trinceresca dell’Olimpico dell’amaro mondiale del 1990, col cuore che batteva insieme alle gradinate che tremavano al grido teutonico di battaglia «D!» (Deutschland), urlato dagli ultras tedeschi, con al collo la sciarpetta giallo-nera del Borussia Dortmund, frutto di un improvvisato gemellaggio con un biondo germanico esaltato, che aveva accettato in cambio la mia della magica Roma.

Davanti all’invitante libro pubblicato da Amorese, all’atto della scelta, avevo preferito aspettare. C’erano decine di libri che dovevo ancora studiare, quando avrei avuto il tempo di rilassarmi con il volume di Fontana? E, poi, diciamo la verità, la nostalgia non è un sentimento che mi piace. Tanto meno essere nostalgici a 45 anni!

Eppure, quella «D!» urlata allo stadio olimpico come un guerriero di Arminio prima della battaglia, ancora risuonava nelle mie orecchie e, un giorno, liberatomi improvvisamente da pressioni editoriali, sono “schizzato sulla fascia” e ho preso il libro.

Il tratto di Fontana è sublime, riesce a portare il lettore in quel mondo fatato che era l’Italia degli anni ’80. Gli anni del benessere economico, dei paninari, degli hambuger. Di Rocky e di Rambo. Il 1990 doveva essere solo il primo anno di un nuovo decennio di gloria e benessere e il destino, così benigno con quegli Italiani, aveva fatto sì che questo nuovo periodo aureo si aprisse con una corona iridata di portata storica: il mondiale. Che l’Italia, la grande Italia, non poteva che vincere.

Eppure, tutto questo castello disneyano crollerà un giorno, quella maledetta sera del 3 Luglio 1990, quando l’Italia, in semifinale, perse ai rigori contro l’Argentina. Una cicatrice indelebile sul volto della nostra Nazione, una crepa che, di lì a poco, farà crollare la diga. Tutto sarà spazzato vita, in un vortice pauroso durante il quale nessuno pensò mai a quali vascelli si era dato fuoco, quali ponti erano stati fatti saltare, cosa e chi era rimasto indietro.

I mondiali degli anni ’90 vanno ricordati per essere gli ultimi in cui giocarono la Germania Ovest, la Iugoslavia, l’Unione Sovietica! Ma anche gli ultimi con Cossiga alla Presidenza della Repubblica ed Andreotti come Presidente del Consiglio. Quel mondo e quell’Italia, sarà destinato alla scomparsa, ma nessuno, in quel 1990, interessava tutto ciò, nessuno. Nessuno poteva immaginare il tramonto di Craxi, “sagace Primo Ministro e grande estimatore e consumatore del gentil sesso”, come ama sovente ricordare l’amico Alberto Sulpizi, in tempi in cui questa non era un’offesa, ma un vanto dell’italico valor. E, il calcio, lo sport per eccellenza, era “roba da uomini”, quando questa definizione non era sanzionata per legge, ma una costatazione di natura. E sugli spalti c’erano anche gli hooligans, perché il calcio, anche quello non giocato, rimaneva “roba da uomini”. E i violenti non erano solo loro. Perché il mondiale italiano lasciò sulle strade numerosi feriti ed anche un morto, un tifoso britannico finito sotto un’auto mentre fuggiva da un Italiano… armato di accetta!

Di bambini allo stadio non se ne vedevano certo. Non era mica il circo quello. E se qualche adolescente andava, lo faceva a suo rischio e pericolo. Ricordo ancora le corse con mio padre fuori lo Stadio Olimpico durante i frequenti scontri tra milanisti e romanisti, per schivare i sanpietrini che volavano sulle nostre teste, tra le bombe carta che scoppiavano, i fumogeni che trasformavano in Ade quei giardinetti… corsa che finiva davanti al primo cancello dello stadio, non importava quale, dove si entrava a spinta, mostrando biglietti di tutt’altro settore. Nessuno si scandalizzava. Il calcio era anche quello. Il futuro avrebbe cancellato tutto ciò. In campo, come sugli spalti. Ma nel 1990 tutto ciò sembrava impossibile.

Eppure la sentenza era stata già scritta. Ma nessuno l’aveva letta. O aveva avuto tempo di leggerla, perdendosi nell’esaltazione di una stagione storica straordinaria. I gradoni dello Stadio Olimpico, umidi e freddi, dal sapor di littorio, erano scomparsi per uno stadio futuristico da sogno. Era la speranza di un domani migliore. Il risultato di una evoluzione verso il futuro. Nessuno avrebbe mai immaginato che, finiti i mondiali, quelle strutture sarebbero diventate obsolete e il calcio un investimento per Società per Azioni.

Ma chi ci pensava a queste cose?

Chi avrebbe mai pensato che tutta quella “costruzione” – che dietro i fasci di luce abbagliante, lasciò l’amaro conto di 24 morti sul lavoro – potesse creare un disastroso buco di bilancio che avremmo continuato a pagare per decenni?

Ma quella era l’Italia che costruiva, andava avanti, donava speranza, creava lavoro, fiumi di miliardi – delle care e vecchie Lire! – con cui si fabbricava il futuro, quotidianamente. E tutti ne gioivano. L’Italia era una locomotiva, quinta potenza mondiale, che andava veloce, inarrestabile, con un combustibile camorristico da favola chiamato “tangenti”. E chi sarebbe mai stato quel pazzo che avrebbe fermato questa corsa verso la gloria?

Il calcio, abbiamo detto. Quel calcio romantico. Fatto di bandiere e di passioni. Di fedeltà ad una maglia, ad una squadra, ad un simbolo. Per tutti era così. Doveva essere così. Ma la sentenza di morte era stata già pronunciata ed anche questa volta nessuno ci aveva fatto caso. Del resto, il Milan di Berlusconi – una squadra stellare come mai nella storia di questo sport – era solo l’espressione più genuina dell’Italia di quegli anni. Chi avrebbe mai pensato allo sport come un investimento, alle televisioni a pagamento che avrebbero sostituito le gracchianti radioline, ai giocatori che sarebbero diventati semplici impiegati di questa o quella società, viziati ventenni, magari analfabeti ma con tanti soldi “da scatenare una guerra”?

Eppure gli ingredienti di questa trasformazione, di questa esecuzione pubblica, c’erano già tutti. Ma nessuno ci fece caso. L’Italia avrebbe vinto il mondiale, del resto. Ed aperto una nuova era, una progressione in linea col passato, non certo la sua negazione. Come, però, poi fu. La Coppa Campioni, il simbolo stesso del dominio continentale, scomparve così, in nome di un campionato europeo da sostituire a quello nazionale, ormai considerato “provinciale”. Nel 1990, un’affermazione del genere avrebbe fatto ridere. Una manciata di anni dopo, fu la triste e vuota realtà.

In quel mondiale italiano, in ogni senso, gli arbitri avevano ancora la tradizionale divisa nera – non erano dei canarini multicolori come quelli di oggi – e furono i portieri a disegnare l’eleganza sportiva con maglie straordinariamente variegate che faranno, per la prima volta, storia. In campo v’erano leggende del tempo: Higuita, Gascoigne… e, per l’Italia Baggio e Schillaci. Saranno questi due “Signori del calcio” a trascinare la Nazionale in semifinale, conducendo un sogno che si infrangerà traumaticamente al San Paolo di Napoli, dove mancherà – tra l’altro – la spinta propulsiva del pubblico di Roma.

I napoletani, del resto, amavano troppo il loro Maradona, simbolo del riscatto di un’intera città. Il Vesuvio, quella notte, rimase silenzioso. L’intera Italia attendeva il suo ruggito. Purtroppo, andò così. Quel silenzio, dopo tanto chiasso e tanta festa, fu funereo. Rimase negli anni successivi, come a simboleggiare il volto del nuovo decennio che stava per cominciare. Un decennio che, secondo le previsioni dei giornalisti di sinistra, sempre pronti a lordare il proprio Paese ed esaltare il Terzo Mondo, avrebbe visto il sorgere del calcio africano. Nemmeno questa funerea – per il calcio europeo – previsione si avverò. Assisteremo, invece, all’africanizzazione delle Nazionali d’Europa e l’Africa rimarrà al palo, a contare ancora i chilometri che separano i villaggi dal primo pozzo d’acqua potabile…

All’indomani dell’eclissi dell’Italia di Azelio Vicini – eclissi che sarà poi quella di un’intera Nazione e non solo calcisticamente parlando – un gigante del giornalismo come Gianni Brera evidenziò la “insoddisfazione morale che ci veniva dall’andazzo del nostro sport: il totale disprezzo dell’etica via via assunto dai nostri club, intesi a un mercenarismo del tutto deteriore, insensibili agli stessi diritti del vivaio”. “Un sistema che si rifà allo spreco e alla grandigia anziché alla ricerca e alla preparazione del meglio”. E, infine, la condanna: “Giochiamo [nel nostro campionato] con tutti gli assi stranieri, assicurando loro comprimari indigeni: e proprio con questi, ai mondiali, vorremmo prevalere?”.

Parole che resteranno inascoltate. Da quel giorno, l’Italia non sarà più la stessa. Una manciata di anni spazzarono via un mondo, l’Europa, il calcio, ridotto oggi ad un circo spettacolare fatto di posti numerati al coperto e riscaldati, pronti ad ospitare bambini addobbati come alberi di Natale con i loro genitori vestiti griffati. Asettici. Disinfettati. Tutto, del resto, ha un prezzo. Anche il cestino di pop corn a 25 Euro.

Chi non ha vissuto quegli anni, non ha vissuto il calcio inteso come sport, come sfida. Al San Paolo si spense non solo una Nazionale, ma un mondo che forse aveva fatto il suo tempo. Ma il calcio, no, forse si poteva salvare. Vogliamo credere che fosse possibile. E anche quando nel 2006, l’Italia vinse il mondiale, con quella divisa con inserti blu scuro e numeri stranamente d’oro, beh, quella non era solo una divisa inusuale. Era un altro calcio. Che con lo sport non c’entra nulla. E, per una volta, possiamo dirlo. Con supponenza e fastidio: «Ma che ne sanno i duemila?».

Pietro Cappellari