ISTRIA, FIUME, DALMAZIA… ITALIA!

25/9/2021

Note a margine di una penosa vicenda, tra ignoranza e immoralità

Ho aspettato qualche giorno prima di intervenire per chiarire una faccenda penosa, dove ignoranza e immoralità sembrano averla fatta da padrone. Del resto, nel merito, ci sono le indagini dei Carabinieri che, spero, faranno luce su questo grottesco spettacolo da Prima Repubblica ciellenista.

Essendo io l’estensore della “famosa” lapide rimossa dall’Ara ai Caduti al Parco della Rimembranza e dei Martiri delle foibe di Nettuno, mi sento in dovere di intervenire per rispetto prima di tutto a quelle vittime che qualcuno, come al solito, ha messo in secondo piano.

La lapide era dantesca, in quanto riportava principalmente la celebre frase del Sommo Poeta Dante, Padre della Patria, in cui indicava Pola, “presso del Carnaro”, i confini culturali e naturali d’Italia. Qualcosa, per l’appunto, di naturale, che richiama addirittura il precedente Strabone e che, in una Nazione civile e degna della propria storia, non dovrebbe sollevare obiezioni di sorta.

Questo piccolo manufatto, in pregevole piastra in porcellana di Deruta, – di cui mi sono “accollato” tutte le spese – è stato regolarmente autorizzato all’unanimità, comprese le scritte ivi impresse, dalla Giunta comunale di Nettuno, senza che nessuno obiettasse nulla. Dopo un mese e mezzo, qualcuno – probabilmente sollecitato dal solito “grillo parlante” che lo ha riportato all’ordine – ha provveduto alla rimozione. Un atto senza precedenti.

Mi sono domandato cosa è stato contestato alla lapide in questione. Secondo quanto trapela dalla stampa – perché io non sono mai stato chiamato in causa in questa penosa e pelosa vicenda di terz’ordine -, si accusava la lapide di voler rivendicare l’italianità dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia…

Fermo restando quanto andremo ad evidenziare, dove sarebbe il reato? Reato di fantasia, sia detto per inciso, che ricadrebbe sull’intera Giunta comunale che quella lapide, con quelle scritte, ha approvato all’unanimità. Ma, per l’appunto, non c’è nessun reato. Eppure, qualcuno si è sentito in diritto di intervenire. Promuovendosi giudice-censore, accontentando il sinistro “grillo parlante”, e rimangiandosi la parola data e la firma impressa su un documento. Politica d’oggi, si direbbe. Si direbbe, certo, se in mezzo non ci fossero dei morti, delle vittime, una tragedia di proporzioni colossali per la storia della nostra Nazione.

La censura della lapide dantesca, addirittura nei giorni del 700° anniversario della morte del Sommo Poeta Padre della Patria, è emblematica per comprendere a che livello siamo scesi.

Se chi ha contestato la lapide conoscesse la storia e la geografia della nostra Nazione, avrebbe dovuto evidenziare che Dante pone i “termini” d’Italia “presso del Carnaro”, aggiungendo Arli e il Rodano. E allora avrebbe dovuto argomentare, se fosse in grado di farlo, che noi, riportando la nota dantesca, avremmo rivendicato sì l’Istria, ma avremmo rinunciato alla Dalmazia. Ma non solo. Avremmo rivendicato anche la Provenza e, visto che ci siamo, io avrei anche inserito la Corsica, Tunisi e Gibuti!

Siamo seri! Anche se qui ci sarebbe da piangere davanti a quello che è accaduto, in una terra dove in nome dell’antifascismo morale “spariscono i morti” tra il silenzio delle Istituzioni e si censurano lapidi dantesche con un’arroganza tipica dei “gendarmi della memoria”.

Davanti allo scempio compiuto, più di qualcuno ha cercato di mettere una “pezza” che, come si suol dire, è peggiore del “buco”. Infatti, sorvolando sulla chiara censura ciellenista della frase dantesca, si è detto che la parola “Italia” che succedeva a “Istria, Fiume, Dalmazia” era una prevaricazione nazionalista.

Elencare alcune località geografiche vuol dire tutto e nulla.

Il nazionalismo – checché ne dicano i sinistri “grilli parlanti” – non è certamente un reato, essendosi ancora in regime democratico.

In realtà, la politica non c’entra nulla, qui si sta contestando la storia, oltre che la geografia, perché si ha la coscienza sporca. Si contestano storia e geografia, sempre sulla pelle delle vittime delle foibe e dell’esodo. È come se qualcuno dicesse “Palermo e Messina” e poi aggiungesse “Napoli” e il “grillo parlante” di turno, per un egocentrismo degno più dell’attenzione di Lombroso che della opinione pubblica, si sentisse in dovere di intervenire per accusare l’incauto qualcuno di voler restaurare il Regno delle Due Sicilie, magari chiedendo l’intervento della Magistratura, elevandosi a questurino, giudice e poliziotto. Ma, anche in questo caso, dove è il reato?

Gli unici reati che qui vediamo sono i crimini contro l’umanità compiuti dai partigiani comunisti e, non dimentichiamolo, dai politici italiani del dopoguerra: “Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque compie atti violenti diretti e idonei a sottoporre il territorio dello Stato o una parte di esso alla sovranità di uno Stato straniero, ovvero a menomare l’indipendenza o l’unità dello Stato, è punito con la reclusione non inferiore a dodici anni. La pena è aggravata se il fatto è commesso con violazione dei doveri inerenti l’esercizio di funzioni pubbliche” (art. 241 del Codice Penale).

Reati per i quali nessuno ha mai pagato e, anzi, per qualcuno costituiscono “medaglie al valore”.

Le parole “Istria, Fiume, Dalmazia, Italia!” che io ho voluto sulla lapide dantesca, oltre a far capire il tributo dell’Ara a chi è rivolto, sono i quattro nomi che le vittime dei partigiani titini hanno portato nel loro cuore durante il loro “calvario”. In nome di queste quattro “patrie” sono stati perseguitati, sono stati uccisi. E qualcuno viene a contestare che “non sta bene” accostare il nome “Italia” all’Istria, a Fiume, alla Dalmazia?

Nel 1972, quando ancora il Maresciallo Tito e i suoi partigiani godevano i favori di tutte le democrazie occidentali, quando c’era il PCI che di quella tragedia – sterminio, abbandono delle terre italiane e persecuzione degli esuli – fu uno degli attori, sul Monte Zurrone, il Sacrario militare che ricordava i Caduti senza Croce, gli istriano-fiumano-dalmati eressero una colonna della memoria, dove lanciarono “il grido eterno di fede e di passione: Italia”. Così fecero in tanti altri luoghi sacri alla Patria. Oggi, nel 2021, qualcuno si arroga il diritto di dire: «Non sta bene».

Non so cosa facciano questi sinistri “grilli parlanti” e questi censori moderni e non so cosa facevano nell’Estate 1995 quando per la prima volta, pubblicamente, presi a parlare dell’olocausto istriano-fiuamano-dalmata. In qualità di fiduciario del Comitato 10 Febbraio e Socio onorario della Fameia Capodistriana della Libera Provincia dell’Istria in Esilio, come oratore ufficiale presso diversi Comuni nel Giorno del Ricordo con tanto di apprezzamento della Presidenza della Repubblica Italiana, non accetto lezioni morali da nessuno. Sia chiaro!

Se per qualche sinistro la tragedia delle foibe e dell’esodo costituisce una cicatrice indelebile sulla propria faccia, non ci interessa. Se per qualche sinistro il Parco della Rimembranza, da me ricostituito dopo lo smantellamento voluto dai comunisti nel 1946, è un affronto, non ci interessa. Se a difendere i Sacri confini dell’Italia, nel 1943-1945, ci furono i combattenti della RSI e a loro non sta bene che si sappia, non ci interessa.

Gli autori, i complici, coloro che hanno le mani sporche di sangue o l’animo ancor più sporco dall’adesione ad una ideologia di terrore, morte e miseria, davanti al Parco della Rimembranza, davanti all’Ara dei Caduti, dovrebbero semplicemente tacere.

Non dimentichiamo cosa è stato compiuto in Istria, a Fiume in Dalmazia in nome dell’antifascismo. Non dimentichiamo chi voleva cedere anche Gorizia e Trieste al “paradiso socialista” di Tito. Non dimentichiamo i Governi italiani che davanti a un massacro senza precedenti – ripetiamo: senza precedenti – nella storia della nostra Nazione si girarono dall’altra parte, lasciando correre. Non dimentichiamo i comunisti, i socialisti, i sindacalisti che a Bologna gettarono sulle rotaie il latte destinato ai bambini esuli che fuggivano dall’Istria in balia dei partigiani antifascisti. Quegli esuli deportati in varie parti d’Italia su carri bestiame, costretti a vivere nei campi di concentramento per anni. Quegli esuli, nostri fratelli italiani, a cui venne negato il diritto alla vita, alla parola, alla memoria, in nome dell’antifascismo.

Ebbene, gli eredi morali ed ideali di costoro, ci dovrebbero dire cosa dobbiamo scrivere su un monumento ai Martiri delle foibe?

Ben strano paese sarebbe quello in cui le Istituzioni inaugurano in pompa magna vie e monumenti a chi è accusato di stupro ed omicidio e, nello stesso tempo, censurano lapidi dantesche perché la parola Italia “non sta bene” al fianco di Istria, Fiume e Dalmazia.

Se a qualcuno brucia dentro la realtà storica, non possiamo farci nulla. Non ci interessa. Continueremo a parlare di libertà.

Non possiamo, non dobbiamo, non vogliamo cedere a questo ricatto. Alla supponenza, alla falsa superiorità morale che cela solo l’odio antifascista e la fasciofobia, opporremo sempre l’amor di Patria che tutto vince, che tutto supera.

Istria, Fiume, Dalmazia… Italia!

Dott. Pietro Cappellari

Direttore della Biblioteca di Storia Contemporanea “Coppola” di Paderno (Forlì)