Ass. Naz. Famiglie Caduti e Dispersi della RSI: lettera aperta al Direttore di “Sabato Sera”

17/10/2022

di Pietro Cappellari

Gentile Direttore,
mi giunge oggi un articolo a firma di tale Benito Benati, pubblicato sul Vostro giornale il 13 Ottobre scorso. Sinceramente, in tutti questi anni in cui mi sono impegnato nella ricerca storica e nella difesa della memoria dei caduti della Repubblica Sociale Italiana al fianco dell’Associazione Famiglie Caduti e Dispersi della RSI, ne avevo lette e sentite di tutti i colori, ma oggi è stato superato ogni limite.
Ora, un conto è la storia, un conto la speculazione e la propaganda politica e, a volte, davanti a fenomeni che non si comprendono, sarebbe doveroso il silenzio. Così non è stato. Purtroppo è stato forse superato anche il limite della decenza.
Nell’articolo, il cui titolo è un “capolavoro”, si parla di “bambini soldato, mandati al macello dai fascisti”, cioè si allude alla scelta di decine e decine di migliaia di giovanissimi italiani di aderire alla Repubblica Sociale Italiana: un fenomeno che, evidentemente, l’autore non comprende. Si trattò del più grande fenomeno di volontarismo di guerra mai registrato nella storia d’Italia.
E sì! Abbiamo detto “storia d’Italia”, perché quella del volontarismo è una storia che parte da lontano. Il Risorgimento fu tutta una mobilitazione generazionale verso un sogno chiamato Unità e Nazione, così il Primo conflitto mondiale, di cui le cronache ci narrano il meraviglioso contributo dei giovanissimi Volontari di Guerra e dei famosi “Ragazzi del ‘99”.
Ricordiamo la frase del socialista Edmondo De Amicis: “Chi rispetta la bandiera da piccolo, la saprà difendere da grande”. Quanta poesia?
Certo, parlare di Patria, di Nazione, a chi le rinnega, può sembrare fastidioso. Certo, parlare di Patria, di Nazione, nel mondo di oggi, appare addirittura anacronistico. Ma se si studia la storia, se si indaga il nostro passato, a nulla serve il giudizio morale di oggi, perché la storia dei giudizi morali non sa che farsene.
Quella dei Bersaglieri del “Mameli” non fu una “storia folle e tragica”, ma qualcosa che dovrebbe renderci orgogliosi di essere Italiani. Che poi qualcuno non se ne sia accorto, poco o nulla conta dal punto di vista storico. E tale rimane anche il giudizio sulle tattiche di impiego dei reparti da parte dei Generali tedeschi che, evidentemente, l’autore, dal suo pulpito, sa ben giudicare, sfoderando la sua cultura militare (laureato in Scienze strategiche, immaginiamo). Strano, però, che si ignorino con tanta superficialità e moralismo le funzioni dei Kampfgruppe…
Che il Battaglione venne “del tutto arbitrariamente” intitolato a Goffredo Mameli lo dice Benati, il quale forse non conosce la storia della RSI, tutta intessuta dei richiami a Mazzini; come quella di Mameli, un giovane “insolfanato e fanatizzato” dalla propaganda risorgimentale, “mandato al macello” con “armi inadeguate” contro un superiore nemico… Vero, gentile Direttore?
Già li immaginiamo i novelli “censori” del politicamente corretto a scrivere al prossimo Presidente della Repubblica per mettere al bando il libro Cuore e, perché no, anche l’inno nazionale che questa Repubblica da quasi 80 anni fa cantare addirittura ai bambini dell’asilo… «siam pronti alla morte, l’Italia chiamò!». Ma chi potrebbe aver mai scritto queste parole per “insolfanare e fanatizzare” i giovanissimi di oggi? Mameli, appunto.
II Battaglione Bersaglieri “Mameli” della RSI prese forma non dalla “disperazione che pervadeva all’epoca il regime di Salò [sic!]”, ma dall’entusiasmo e dallo slancio di decine di ragazzi che videro in esso il concretizzarsi delle loro passioni e del loro amor di Patria!
«Giovinezza, primavera di bellezza», cantavano sorridendo alla vita… E sapete, gentile Direttore, cosa diceva Ernst Jünger, a tal proposito? “Profondo è l’odio che l’animo volgare nutre contro la bellezza”.
Quella giovinezza che si immolò coscientemente su tutti i fronti di guerra della Seconda Guerra Mondiale e fu sfregiata, non già da un nemico in divisa, ma da quei vili criminali – illegittimi belligeranti – che, a guerra finita, ammazzarono questi ragazzini innocenti, simbolo purissimo della fede nella Patria.
La storia di tante stragi partigiane, caro Direttore, cominciando da quella di Rovetta e continuando con gli eccidi ricordati più volte da Gianfranco Stella, dovrebbe insegnare qualcosa. Solo chiudendo gli occhi, come fanno certi “cortigiani”, si può continuare a far finta di nulla.
Il valore dei Bersaglieri del “Mameli” sul campo di battaglia – questo sconosciuto per tante lingue prezzolate che parlano di quegli anni – fu riconosciuto anche dall’alleato germanico che li impiegò in prima linea, al fianco di ben più addestrati reparti della Wermacht. Il loro eroico sacrificio, che fece segnare il passo all’88a Divisione USA, diffuse in tutti entusiasmo e rappresentò la decorazione più ambita per chi aveva l’ambizione difendere l’Onore e la libertà dell’Italia.
Dulce et decorum est pro Patria mori, non è un motto fascista, cari ignoranti, è Orazio!
Gentile Direttore, mi chiedo come si può bollare l’opera di Antonio Liazza come una “rilettura politica”, una “truce e sgradevole pubblicazione”. Ma davvero? Con quale coraggio? Con quale faccia?
Infine, non pensate, gentile Direttore, che sia pura supponenza la dissertazione su come i caduti della RSI dovrebbero essere ricordati. Lui, lo dice a noi?
Siamo davvero al paradosso.
È vero. Siamo davanti a tempi nuovi, dove l’odio antifascista non macina più consensi e dove si riscrivono con obiettività e senza partigianeria intere pagine di storia, una volta monopolio di chi della menzogna era un professionista. Oggi, rimangono solo i “gendarmi della memoria”. Ma non fanno più nemmeno paura. Per questo c’è chi si agita e cerca di convincersi di “aver ancora ragione”.
Non ci interessano i casi umani, prigionieri e vittime, loro sì, della propria ideologia sconfitta dalla storia e dagli uomini liberi.
A Settembre del prossimo anno saremo, come tutti gli anni, presenti a Valsalva a rendere onore ai caduti della RSI, con le nostre bandiere, con le nostre idee, la nostra identità. Avremmo, però, una speranza: di vedere quel giorno Benito Benati. Lo vorremmo guardare negli occhi.